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La voce della mamma come “cordone ombelicale” invisibile per tenersi stretto il bimbo. L’origine del linguaggio (e della musica) secondo Dean Falk. Ovvero, come al principio di tutto fu la donna

“I bambini hanno bisogno di contatto fisico – chiarisce Dean Falk, autrice del libro Lingua Madre, in Sala del Maggior Consiglio, smentendo le tante teorie che sostengono il contrario – ma nel momento in cui i nostri progenitori raggiunsero la postura eretta, a differenza delle scimmie non riuscirono più ad aggrapparsi al ventre della madre”. Questo fatto portò a conseguenze dirompenti per l’evoluzione umana. “C’è un rapporto tra deambulazione sulle gambe ed espansione del cervello: da 3,3 milioni di anni fa fino a oggi, la capacità cranica è aumentata progressivamente. I nostri antenati dormivano sugli alberi, poi hanno smesso: questo ha avuto immense ripercussioni cognitive: dormire per terra ha conseguenze su sogni e memoria. Dunque, durante l’evoluzione, sono sopravvissuti individui che avevano geni tali da permettere loro di adattarsi meglio all’abitudine di dormire per terra”. Se la posizione eretta ha influito sulle capacità cognitive, secondo Dean Falk è anche all’origine della nascita del linguaggio. “I primati non umani che stanno aggrappati alla madre sono contenti e non hanno bisogno di vocalizzare. Mentre nella nostra specie genitori e neonati vocalizzano molto: i bimbi non riescono a stare aggrappati e noi per riuscire a fare altre attività li mettiamo giù, il bimbo si agita e noi lo tranquillizziamo con la voce. A questa ipotesi è associata l’idea dell’apertura del canale vocale. Quando i bambini crescono, dalle vocalizzazioni di rassicurazione passiamo a vocalizzazioni di istruzione: anche il tono viene modulato in modo tale per aiutare il piccolo ad acquisire il linguaggio”. Ogni cultura, infatti, ha il suo “maternese”: una “musicale, ripetitiva,fatta di vocali allungate e tono alto. A un anno il bimbo conosce una lingua proprio grazie al maternese, che favorisce l’acquisizione del linguaggio”. Ma anche il neonato ha il suo codice con il quale comunica con i genitori: il pianto. “Gli studiosi lo hanno analizzato dimostrando che nel pianto c’è un pattern, un andamento universale: i neonati hanno un pianto monotono, che nei mesi diventa via via più complesso. Quindi, il pianto è anche un modo per sviluppare la voce, un primo passo verso i primi balbettii infantili”. “I bambini - continua la paleoantropologa - nascono con la capacità di distinguere centinaia di suoni diversi usati dalle culture del mondo. Da 6 a 12 mesi perdono questa capacità e si concentrano su suoni più limitati: quelli della loro lingua materna. Se pensate a come viene modellata la nascita del linguaggio, partendo dall’ipotesi di mettere giù il bimbo, vedrete che i bimbi imparano tanti suoni tutti insieme e ci vuole un po’ perché ne estraggano la prima parola”. Ma come sono nate, le parole? Ci sono varie ipotesi. “Un modello è quello dei macachi giapponesi. La madre ha inventato un particolare modo per lavare le patate: i figli l’hanno imparato e poi anche gli amici. Questa pratica si è diffusa da una generazione all’altra: è diventata una trasmissione culturale. Come le lingue nei nostri antenati. Un altro esempio è quello rappresentato da bambini sordi in Nicaragua: un gruppo che negli anni Settanta non andava a scuola e si è inventato un proprio linguaggio dei segni, trasmesso e codificato dalle generazioni successive. Inventato dal nulla, insomma”. I piccoli della specie umana, infatti, sono come “spugne: interpretano i tanti stimoli, e il loro cervello è programmato per elaborarli. Le informazioni, poi, vengono consolidate nel sonno Rem”. Dal maternese, nato dall'esigenza di mantenere il contatto con il bimbo “messo giù”, non è nato solo il linguaggio. Ma anche la musica: da ninne nanne, filastrocche, cantilene. Così, musica e parole “si sono sviluppate insieme”. Per questo “un’esposizione precoce a musica e arte può aiutare i piccoli nella loro evoluzione”.
 

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