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Il computer nella testa. Intervista con Michael Chorost, l’uomo cyborg che grazie alla tecnologia ha recuperato l’udito. Ed è diventato, paradossalmente, più umano

Si chiama Rebuilt il libro di questo visionario science writer, umanista moderno che si dice “grato di aver avuto l’opportunità di una nuova vita”. Il libro nel 2006 vince il PEN/USA Book Award for Creative Nonfiction, e dopo poco tempo viene ristampato con il nuovo titolo Il mio viaggio di ritorno al mondo dell’udito. Un mondo dove niente sarà più come prima: “Ecco come sento io – spiega Chorost e fa ascoltare una registrazione in cui si sente una voce metallica della quale si intuiscono le parole a fatica – all’inizio è stato molto difficile. Ascoltavo la radio ed erano rumori completamente non-sense, era come ascoltare una lingua che non conosci. Devi esercitarti, fare pratica”. L’impianto, come lo definisce Chorost, è composto da due piccoli dischi neri e magnetici da indossare dietro l’orecchio. “Nel mio cervello ci sono due chip come questi – e mostra due dischi bianchi grandi come una noce – che ricevono le informazioni che arrivano dall’esterno. Nel cervello sono impiantati alcuni elettrodi che trasmettono i segnali ai miei nervi uditivi: ci sono centinaia di migliaia di transistor nella mia testa”. I magneti da cucina gli si attaccano al cranio, il suo udito può essere migliorato con nuovi software: ma allora, dove finisce la macchina e inizia l’uomo? Chorost sorride: “Tutti amano la tecnologia, e io anche. Ma nel mio caso è diverso perché io ho la tecnologia dentro di me. Però, la macchina è solo una cosa. Non ha una mente. Un po’ come il violino nelle mani del musicista: è solo uno strumento, perché è il musicista a suonarlo. Il mio impianto è solo un arnese, mi manda informazioni che io devo imparare a capire. Non è magico, non mi fa capire, sono io che so cosa succede”. Quando il mondo è così difficile da sentire, capita che ci si alleni, a tendere l’orecchio. Ad ascoltare più a fondo. “Credo di aver sviluppato una maggiore empatia nei confronti delle persone. Ne sento l’anima”, riflette. Nel suo secondo libro, World Wide Mind, Chorost cerca di indagare su un’idea, un concetto che rappresenta “un’imminente intelligenza globale: con un’intenzionalità e una coscienza propria. Tenendosi lontano dall’idea fantascientifica che Internet, di per sé, stia per diventare intelligente: questa è un’idea assurda”. Piuttosto, il “world wide mind” è “l’agire in concerto di esseri umani e web, e la combinazione di questi due elementi può dare origine a un germe di intelligenza, superiore a quello delle singole parti”. Perché “non si può fermare quella fame di restare connessi, il desiderio di guardare lo schermo. Ma è possibile incorporare quel bisogno in un fondersi effettivo della tecnologia con il corpo, per fare di quella connessione tramite la tecnologia un collegamento fisico ”. Lui, questo collegamento lo incarna. Letteralmente. E apre numerosi interrogativi nell’era della tecnologia: quando i sensi diventano programmabili, possiamo credere a quello che ci dicono del mondo? I cyborg sono ancora umani? “Io ho avuto l’opportunità di una seconda vita – spiega lui - sono diventato qualcosa che prima non ero. Uno scrittore”.