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Enrico Giovannini parla del futuro: “Il progresso e felicità non sono sempre sinonimi, per questo va ripensato il modello economico in cui viviamo”

“Pensate a cosa gli regalereste ai vostri figli per renderli felici. Se la risposta sono i soldi, potete anche allontanarvi dalla sala”. È con una battuta che Giovannini ha iniziato la sua relazione. “Io direi che se si deve pensare a cosa rende felici le prime risposte siano avere buona salute, un lavoro che ci piace, amici, magari vivere in un bel posto. E allora perché misuriamo il benessere del nostro paese con il PIL? Evidentemente c'è qualcosa che non va”, ha poi aggiunto. Precisando: “Non dico che questo indicatore non sia correlato a cose belle come la speranza di vita o alla riduzione di povertà, malattie e analfabetismo. Dico però che se corriamo solo dietro al PIL andiamo nella strada sbagliata. Anche perché questo parametro si basa su due assunti sbagliati: che le risorse siano infinite e che i modelli economici possano dare tutte le risposte.” L'esempio fatto dal presidente dell'Istat subito dopo è molto semplice. “Immaginate di vivere in una borgata di una grande città, dove gli spostamenti sono difficili, l'ambiente è inquinato e dove non si può uscire la notte perché c'è violenza nelle strade. E poi immaginate a come spendereste i vostri soldi. Probabilmente comprereste un home theater o fareste viaggi. Tutte cose che in realtà non modificano la felicità a lungo termine, perché non modificano l'ambiente in cui vivete tutti i giorni”, ha spiegato. “E allora sono i soldi che non comprano la felicità oppure non stiamo tenendo conto di quello che ci siamo persi? Gli ultimi cinquant'anni di crescita economica non hanno prodotto più felicità perché nel frattempo abbiamo perso i beni relazionali, l'interazione con gli altri.” Poi il discorso si fa più analitico. “Abbiamo prodotto tanto capitale economico, è vero, ma ora abbiamo il problema di mantenere infrastrutture e servizi”, ha precisato. “E non siamo nemmeno andati molto lontano, rispetto al nostro benessere. Perché? Abbiamo consumato capitale naturale, ovvero prosciugato l'ambiente e il territorio. Abbiamo accresciuto capitale umano con l'istruzione, ma oggi abbiamo i giovani con la più alta qualificazione di sempre e non sappiamo come sfruttarli. Sul capitale sociale la discussione è più complessa, ma probabilmente abbiamo bruciato anche quello. E allora mi chiedo: non è che ci dovremmo organizzare diversamente?” Il problema, secondo Giovannini, è come guardiamo al futuro. “Finora abbiamo definito progresso ciò che permetteva l'aumento del benessere, in maniera equa e solidale. Il problema dell'equità è ancora centrale, soprattutto in alcuni posti. Ma io non sono sicuro che debba essere la sostenibilità l'altro termine da tenere in considerazione. Forse invece dovremmo parlare di vulnerabilità, di come ridurre il rischio per le generazioni future”, ha detto l'economista. Spiegando ancora: “Non possiamo stare bene se il nostro futuro è incerto. E ad oggi quasi nessuno può pensare al domani senza avere un accenno di panico. Se andiamo avanti così ci mangeremo tra di noi, e anzi forse abbiamo già cominciato: abbiamo aumentato l'aspettativa di vita, ma non ci siamo domandati se saremo in grado di sostenere le spese sanitarie che ne derivano. E così potremmo esserci mangiati anni di vita delle generazioni future.” Ma, se il quadro è così cupo, qual è la soluzione? “Se l'unica cosa che ci resta è il progresso possibile, bisogna accordarsi cosa puntare. Io la risposta non c'è l'ho, ma credo che sia qui che i giovani hanno ruolo fondamentale”, ha continuato. Concludendo poi: “Nel passato essere un grande paese voleva dire avere un grande territorio. Per tutto il '900 voleva dire avere grandi capitale. Oggi spetta ai giovani decidere oggi cosa vorrà dire essere un grande paese in futuro.”
 

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