Festival della Scienza

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Perché non siamo il nostro cervello. Ovvero, come fin qui abbiamo cercato la coscienza nel posto sbagliato

Questione di sguardo, in un certo senso. “Immaginate di andare in un museo a vedere le opere di un artista dallo stile che non conoscete – spiega Noë - vi è mai capitato? Tutti i quadri sembrano uguali, piatti e indifferenziati. Ma immaginate che un vostro amico vi faccia focalizzare l’attenzione su qualcosa, vi spieghi qualche dettaglio. Tutti i pezzi iniziano a prendere forma per voi, come individui, singolarmente. E quello che era piatto è ora affascinante. Ebbene, si è verificata una trasformazione: e questo cambiamento è avvenuto dentro di voi. Un cambiamento che vi permette di vedere quello che è lì in modo individuale, di percepire cosa vi sta davanti. La parola per definire questo è comprensione: riflettendo su queste opere riuscite a capirle, a focalizzarvi su di loro. La comprensione ve le svela”. Ecco, accantonate per un attimo l’arte: “Perché voglio farvi capire l’idea secondo cui la concentrazione, l’applicazione di competenze, sono elementi necessari per focalizzare a fini di coscienza ciò che sta di fronte a noi. Questo ha a che fare con la coscienza percettiva. E uno dei motivi per cui l’arte è così importante per noi è proprio questo: siamo come ciechi finché non riusciamo ad avere un contatto con ciò che è davanti a noi”. Eppure, l’idea prevalente nella neuroscienza cognitiva di oggi, precisa il professore, “è la teoria proiettiva del visibile verso i nostri sensi. Ovvero, il mondo si proietta verso gli occhi, che semplicemente ricevono. Ma è proprio così?”. Sullo schermo Noë mostra la fotografia di una strada di Parigi. E nessuno si accorge che il colore dell’auto parcheggiata è cambiato. “Eppure I nostri occhi hanno visto quella parte della foto, ma la proiezione verso l’occhio non è sufficiente a vedere. Sollecitare il sistema nervoso non è sufficiente ad attivare la coscienza percettiva: il significato, infatti, non arriva alla nostra coscienza”. Quello che appare non è, quindi, solo qualcosa che sollecita il sistema nervoso: “Questo non è sufficiente perché l’esperienza si manifesti”. Bisogna cambiare mentalità, allora. E pensare non tanto a qualcosa che è visibile. Ma a come questo sia disponibile. Sembra complicato? “Invece è molto semplice: prendiamo un pomodoro. Io lo guardo, e so anche che dietro c’è la sua parte posteriore. Fa parte della mia esperienza visiva vedere anche le parti nascoste. E non perché attivano cellule nella mia retina, ma perché questo è disponibile per me”. L’esperienza, dunque, “dipende dal possesso di capacità e conoscenze. E queste sono legate al luogo in cui siamo e alle strutture sociali ed ambientali che ci sostengono. Una conferma ci viene dai sogni: fino a sette anni, infatti, i bambini non sognano tanto. E questo perché non si tratta di un fenomeno sensoriale, ma presuppone abilità cognitive, saper comporre le proprie esperienze in modo fantasioso. Si raggiunge esercitando competenze”. Ecco perché noi non siamo il nostro cervello. “Dentro di noi c’è qualcosa che pensa e sente: è un’idea antica, e non è qualcosa di concreto, materiale. L’anima, come diceva Cartesio? L’unica cosa certa è che non abbiamo idea dell’attività celebrale che dà origine alla coscienza. È l’unica cosa su cui i neuroscienziati sono d’accordo”. E allora, il problema della coscienza deve essere indagata sì con gli strumenti delle scienze, ma è anche un discorso filosofico: “Le due cose non sono in contrasto. Ma di sicuro guardiamo nel posto sbagliato se ci focalizziamo sul cervello: la coscienza è uno scambio interattivo con il mondo che ci circonda”.
 

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