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Da dove viene la coscienza? Il mistero di “sapere di sapere”

La coscienza, la consapevolezza, “viene da qui – spiegano – e la parola qui è un dimostrativo, è come io, adesso, come questo. Una parola che impegna chi la pronuncia, che riporta ciascuno di noi alla nostra situazione. E la coscienza è quella meravigliosa consapevolezza della nostra esistenza. Queste considerazioni sorgono non appena si sospende il giudizio, ed esprimono una descrizione fenomenologica. La coscienza, infatti, è primaria non solo dal punto di vista metafisico”. Usare le parole per definire la coscienza, però, può portarci fuori strada: “Il significato, infatti, sposta l’attenzione dal suono di una parola a ciò che significa. Ci porta fuori di noi, verso il futuro: per questo quando usiamo una parola per definire la coscienza, questo ci porta fuori strada. Ma la coscienza è qui: significare la coscienza è un’impresa disperata”. La scienza, come la lingua, ha questo limite: “L’obiettivo della scienza è di elaborare verità universali, leggi scientifiche. E la scienza stessa non può dire nulla sul fatto che i fenomeni esistono, sulla loro qualità. La coscienza non ci dice niente sulla sensazione dell’esperienza cosciente e della sua origine”. Certo, esistono varie teorie neurologiche: la coscienza nasce quando un’informazione viene pescata nel cervello e rielaborata a livello centrale. Oppure la teoria dell’informazione integrata, che si applica anche ai pazienti in coma: la coscienza sorge quando i processi neurali si manifestano. “Ma nessuna di queste teorie riesce a chiarire l’origine della coscienza”. Il ragionamento più banale suona così: come gli occhi sono l’organo della vista, così il cervello è l’organo della coscienza, perché se non funziona più sparisce la coscienza. Ma cosa succede quando il cervello smette di funzionare? “Pensiamo all’anestesia generale: è possibile osservare che più si aumenta l’anestetico, via via vanno perse la memoria, la parola e il comportamento coordinato, una dopo l’altra. E studiando questo, possiamo affermare che quando l’elettroencefalogramma è piatto, spariscono le funzioni della coscienza. E ciò nonostante un’esperienza istantanea resta, anche se non cosciente”. Se dovessimo trovare una sede, un luogo fisico per collocare la coscienza, spiega Marcello Massimini, medico neurofisiologo, questo sarebbe “il sistema talamo corticale. Non nel cervelletto per esempio, anche se ha più neuroni. Perché se togliamo il cervelletto al paziente, non perde coscienza”. E questo è il primo mistero. “Secondo paradosso: dormendo la coscienza sparisce, anche se il cervello rimane attivo. Il sogno è un esperimento bellissimo, un’esperienza che si crea nel cervello spontaneamente. L’esperienza fisica consapevole, infatti, ha molti stati. Ma l’informazione non è niente senza l’interazione. Per esempio, la parte destra del cervello non riesce a capire le parole. Altro esempio: il famoso gioco ottico dei due profili che sembrano un calice: provateci. Non riuscirete mai a vedere il vaso e i due volti contemporaneamente”. La coscienza, dunque, è un blocco unico. Unitaria. “E invece no, anche qui incappiamo in un mistero. Perché c’è un equilibrio delicato tra integrazione e unificazione. Se infatti stimoliamo un’area corticale, vediamo che varie aree riescono a interagire come un’unica cosa: sono integrate. Durante il sonno profondo, invece, l’integrazione tra le aree va parzialmente persa. E questo capita anche nel coma, o sotto anestesia. Se la coscienza dipendesse dall’interazione, allora dovremmo chiederci: i computer un giorno saranno coscienti? E i delfini, visto che il loro sistema talamo corticale è uguale al nostro?”. Eppure, mai computer potrà provare la sensazione che si prova a “giocare nell’erba, a correre tra le onde, a sentire l’acqua fredda sulla pelle”: perché, spiega Nicholas Humphrey, filosofo e psicologo, la coscienza è soprattutto consapevolezza sensoriale. “Queste sensazioni, che toccano il nostro corpo, odori, luce negli occhi, non sono la stessa cosa della percezioni. La sensazione è più personale, è il modo in cui rappresentiamo cosa sta succedendo a me adesso. Quello che è sorprendente è il modo in cui rappresentiamo la nostra opinione corporea. Cosa rende il presente soggettivo così ricco, come se vivessimo in un tempo denso? Bisogna chiedersi di cosa è fatta, e a cosa serve la coscienza”. E allora, “questa non è forse una sorta di ricreazione magica, è uno spettacolo organizzato dentro la nostra testa? Un’opera d’arte straordinaria che la mente osserva, che ricostruisce l’interazione tra mio corpo e l’esterno?”. Perché la coscienza “porta con sé emozioni – continua Humphrey - ha una dimensione misteriosa. Ma se funziona così, cosa sta allora dietro le quinte? C’è una sorta di trucco, un’illusione che una parte del cervello fa per l’altra parte del cervello?”. Fino all’ultima, affascinante domanda: “Perché abbiamo la coscienza allora? Se è come un teatro interiore, è davvero una replica fedele del mondo?”. Perché “i veri teatri non fanno repliche: inscenano eventi per intrattenere, aggiungono un valore alla realtà”.
 

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