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In ricordo di Nicola Cabibbo. Ovvero, l’ intelligenza tranquilla” di uno dei più importanti fisici del ventesimo secolo

Perché quello che colpiva di più di lui, dice chi lo ha conosciuto bene, era questa sua intuizione che si accendeva all’improvviso, in un carattere apparentemente sornione. Capace di apprezzare anche i piccoli piaceri della vita, un pranzo in famiglia, un buon libro. Ma davanti alla lavagna, con il gesso in mano, di trasformarsi nel genio che ha studiato l’interazione debole. Professore ad Harvard, direttore dell’Infn, presidente dell’Enea, inventore del cosiddetto “angolo di Cabibbo”, a un passo dal Nobel: tutto questo resta sullo sfondo, dentro la ex chiesa di piazza Sarzano. Perché quello che gli amici e i colleghi tratteggiano è un Cabibbo alla macchinetta del caffè, in giacca e cravatta. O in attesa di un treno, che consiglia un libro. Persino in costume da bagno, mentre è in vacanza e accoglie un suo tesista per dirgli che non ha capito un accidente. “Nicola era mix di confusione e lucidità – racconta Luciano Maiani, presidente del Cnr, professore ordinario di Fisica Teorica alla Sapienza di Roma - cercava sempre il modo più semplice per esprimere i concetti più difficili. E per ricordarlo voglio citare Galileo Galilei, quando dice: “L’intenzione dello spirito santo è di insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo”. “Non ho conosciuto Nicola durante le lezioni perché non ha mai fatto nessuna domanda – ricorda il professor Giacomo Morpurgo - L

ma un giorno bussò all’uscio e mi chiese la tesi. Dovetti rinunciare, perché dovevo andare a Princeton. Quando sono tornato in Italia non ci incontrammo per diversi anni. L

a cosa che più ho ammirato in Nicola era la sua grandissima cultura. Ricordo che una volta lo vidi alla stazione di Pisa: lui prendeva un treno per Roma, io per Genova. Aveva appena finito di leggere “La scoperta di Nettuno” e me lo suggeriva. Lo comprai. Ecco, credo che uno dei grandi pregi di Nicola fosse il suo grande equilibrio. Anche in occasione della mancata assegnazione del Nobel”. “La prima volta che ho visto Nicola era alla macchinetta del caffè alla Sapienza – racconta Roberto Petronzio, presidente dell’Infn – era il 1971, in piena contestazione. E vederlo ben vestito, in giacca e cravatta, mi stupì molto. Finii a chiedere la tesi a lui, me lo avevano consigliato come un professore giovane e dalle idee nuove. Ricordo che mentre facevo la tesi ero in vacanza vicino a Maratea. Anche lui era a Maratea, così andai a casa sua e gli portai il primo brogliaccio. Ricordo che era in costume da bagno, mi disse che faceva schifo e che non avevo capito niente. Tornai quando trovai argomenti più originali”. Viene fuori l’immagine di un Cabibbo serafico, quasi sornione. Ma capace di accendersi all’improvviso, in preda al fuoco del genio. “C’è una cosa che Nicola chiamava “la lavagnata” – racconta Petronzio - lui si metteva alla lavagna, la riempiva di formule. Fumava il sigaro, mentre scriveva. Ecco, quando si metteva a fumare il gesso invece del sigaro era il segnale: aveva raggiunto lo stato di grazia. Nicola era sornione, pigro quasi. Uno che si prendeva il suo tempo: a pranzo, per esempio, tornava a casa. Ci lasciava a romperci la testa davanti alla lavagna, e quando tornava, alle cinque e mezza, risolveva tutto in un attimo e se ne andava. Uno che quando capiva il problema si accendeva di colpo”. “Nicola – continua Petronzio - era il punto di riferimento delle mie idee nuove: se non me la bocciava nei primi dieci minuti in cui gliene parlavo, allora valeva la pena lavorarci! Ecco, quello che mi colpiva di più di lui è che era senza inibizioni davanti ai problemi. Li affrontava come un artigiano, solo che il suo mestiere era basato sull’intelligenza e sull’intuizione. E la sua eredità è qualcosa che esiste, vive. Non è scomparsa”.